Bernadette Manca di Nissa: «Agli aspiranti cantanti lirici consiglio impegno e lavoro»

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Roma Opera Campus presenta in esclusiva un'intervista al contralto Bernadette Manca di Nissa. Oltre ad aver collaborato con direttori e registi illustri, Bernadatte Manca di Nisa ha diretto diverse masterclass internazionali di canto lirico come quelle di Chicago, Accademia Chigiana, Ateneo Internazionale della Lirica di Sulmona, e tanti altri...

Considerata una delle più autorevoli didatte di canto lirico, Roma Opera Campus ha avuto l'onore di averla come insegnante per due masterclass.

Oggi le chiediamo qualche consiglio sul percorso formativo e professionale degli aspiranti cantanti lirici. Iniziamo con le domande.

Bentornata al Roma Opera Campus. Quale evento formativo è stato determinante per la sua carriera professionale?

Non c’è un evento singolo. Da un lato ci sono i miei studi: ho iniziato a Cagliari con un artista del coro, poi mio marito mi ha indirizzato da un bravo e paziente maestro, Gustavo Melis, ex tenore di grazia, un po’ alla Schipa, che mi ha dato l’ABC. Ho seguito alcuni corsi della Simionato al Mozarteum di Salisburgo, dove, tecnicamente parlando, non ho imparato granché. Invece ho avuto preziosi consigli da due illustri e cari amici “anziani”: Leyla Gencer e Sesto Bruscantini. Anche aver fatto alcuni anni di coro mi è stato utile.

Dall’altro lato ci sono le esperienze di palcoscenico e gli incontri con direttori e registi. Cito alcuni tra gli incontri più importanti e per me veramente formativi. Ho fatto tre prime mondiali di Luigi Nono. Ciò che più mi appassionava, più delle esecuzioni, era la ricerca sperimentale sullo spettro sonoro e il lavoro con le macchine che manipolavano la voce, con cui si trovavano effetti nuovi. Luigi Nono scriveva e ricordava tutto: nulla era affidato al caso. Tra i pezzi il più bello mi parve il primo: Diario Polacco n. 2. Lo facemmo alla Scuola Grande di San Rocco, fra le tele del Tintoretto. Tutto ciò ha contribuito alla mia duttilità e all’apertura ai vari generi di musica. Del resto apertura ne avevo già: per esempio tuttora adoro la musica brasiliana.

E poi i direttori e i registi. Ho lavorato con Claudio Abbado, non tanto quanto avrei voluto, ma ciò che ho fatto mi ha giovato. Tutti i direttori bravi mi hanno dato qualcosa. Le principali esperienze musicali, assai formative, le ho fatte con Riccardo Muti, che ha anche una forte vocazione all’insegnamento ed è tra i pochissimi che fa molte prove di sala. È esigentissimo, ma quando sei sul palcoscenico capisce anche le esigenze tue. Ho fatto con lui l’Orfeo di Gluck alla Scala, che mi è valso il Premio “Abbiati”. C’era un’intesa totale. Poi il Falstaff come Quickly, tante volte, anche a Busseto per il bicentenario verdiano, e Pergolesi con Il frate innamorato. E il Requiem di Mozart. Bella esperienza, ma faticosa, anche con Giulini, con la Messa in Si minore di Bach alla Scala e a Santa Cecilia. Faticosa per i tempi dilatati seppur coerentissimi.

Tra i registi, ho imparato da Strehler (Falstaff), ma soprattutto da Roberto De Simone, che mi ha dato fiducia in me stessa e mi ha molto, molto insegnato, sia in lavori suoi che nel Frate innamorato e nell’Italiana in Algeri. Altro da cui ho imparato è Graham Vick, che considero geniale, soprattutto in un meraviglioso Monteverdi: L’incoronazione di Poppea a Bologna. Ho fatto con lui anche un bel Falstaff (con Terfel e la Frittoli, direttore Haitink) per la riapertura del Covent Garden nel Millennium, dopo la ristrutturazione del teatro.

Un metodo di insegnamento non sempre è adatto a tutti gli allievi. Tuttavia, secondo lei, cosa non può davvero mancare durante la fase di studio?

Il mio metodo d’insegnamento si basa principalmente sulla proiezione del suono “in maschera” e sulla respirazione. Noi produciamo il suono con la adduzione e vibrazione delle corde vocali e di tutto il complesso apparato laringeo, e bisogna imparare a dirigerlo verso la nostra cassa di risonanza (come negli strumenti), cioè verso le nostre cavità: amplificatori di intensità, come saggiamente le definisce il professor Franco Fussi. Si tratta dei seni frontali e mascellari, che stanno tutti al di sopra dell’apparato fonatorio. Dire “voce di petto”, per esempio, non è esatto, in quanto il “petto” è un registro e comunque un eventuale consonatore e non un risonatore.

La respirazione diaframmatico-intercostale ed il supporto della muscolatura pelvica fanno in modo che il diaframma si posizioni e si stabilizzi mantenendo il flusso del fiato il più regolare possibile.

Detto questo, è ovvio che le “gole” dei cantanti sono diverse: le dimensioni, lo spessore e la lunghezza delle corde, la muscolatura, la capacità e la pervietà delle cavità di risonanza, la stessa forma del viso; tutto ciò incide sulla qualità del suono. E la continua evoluzione del fisico porta anche ad continuo adattamento del suono. L’insegnante dovrà dunque adattare i principi fondamentali alle diverse situazioni fisiche ed anche psicologiche.

La ricerca stilistica e lo studio delle opere dei vari compositori sono poi un allenamento continuo: per la voce, ma soprattutto per il cervello, col quale principalmente si canta. E la tecnica è un mezzo, non un fine: un mezzo per far musica, nel modo migliore, se il cervello soccorre.

Affermarsi come cantante lirico richiede molto impegno e sacrificio. Lei come ha superato le difficoltà che ha incontrato lungo il suo percorso?

Un po’ in tutti i lavori, se si fanno con coscienza, ci vuole impegno e sacrificio. Nel canto, all’inizio si fanno concorsi e audizioni. Concorsi ne ho fatto pochi, audizioni ancor meno. I concorsi fa piacere vincerli, naturalmente. Ma anche se non si vince sono occasioni per farsi sentire, audizioni per un pubblico oltre che per le giurie. Così, il primo Concorso “Callas”, che non vinsi, mi è stato utile. Pensi che tra i non vincitori ci furono Daniela Dessì, William Matteuzzi, Giorgio Surian e un soprano che aveva allora una voce bellissima, Floriana Sovilla. Ma andammo in Tv, e nel pubblico era presente Carlo Alberto Cappelli, che dirigeva l’Ente Arena di Verona. Scritturò Matteuzzi, Surian, la Sovilla e me per una serie di Petite Messe Solennelle che fece girare, oltre che a Verona, per molte città. Altro concorso fu il “Belcanto” a Pesaro, che vinsi, e di qui nacque il mio rapporto col R.O.F. Pensare che ai tempi il figlio del sovrintendente Mariotti era un bimbetto, oggi Michele è un direttore d’orchestra certamente tra i primi della sua generazione ed anche oltre. Dettava legge Rodolfo Celletti e col premio di un milione di lire vinsi dieci lezioni a Milano con lui. Fu una bella esperienza perché Celletti era uomo colto, intelligente e spiritoso, anche se parlava come se avesse sentito personalmente Farinelli o la Grisi. Mi dette saggi consigli, ma non mi convinse il suo metodo di respirazione. Del resto non era stato cantante. Che io sappia, di quelli che hanno fatto una vera carriera, il solo Matteuzzi si trovava bene con lui, mentre molti e molte cantanti ci andavano a lezione perché contava molto nei teatri. Siccome lo stimavo, non volli prenderlo in giro e non andai più a prendere sue lezioni, sebbene, generosamente, si offrisse di darmele gratis.

Poi contò un’audizione alla Fenice. Altri tempi: fu il teatro a telefonare! Cantai pezzi dall’Italiana in Algeri e Semiramide. Il direttore artistico era Italo Gomez, il suo segretario Gianni Tangucci. Uomini di teatro, pieni d’iniziativa. Fui scritturata e debuttai in un ruolo primario: Ottone nell’Agrippina di Händel. Era il debutto in Italia di Christopher Hogwood, gentilissimo. Anni dopo mi chiamò negli Stati Uniti per un Pulcinella di Stravinskij, di cui c’è il disco Decca.

Le difficoltà le ho superate con l’esperienza e col lavoro insieme a direttori e registi, a cui ho già accennato.

Poi c’è la questione degli agenti, che dovrebbero aiutarti nella carriera. Io la mia l’ho fatta senza agenti. Con due sole eccezioni: un paio di scritture in Francia con un agente francese e un incontro con Adua Pavarotti, donna intelligentissima. Andai, con mio marito, a trovarla a Modena. Aveva l’ufficio nella villa di Luciano. Ci accordammo così: siccome ero già presente nei principali teatri italiani, a cominciare dalla Scala, avrebbe trovato scritture (solo per opere sulle quali ero d’accordo) in teatri, esteri o italiani, in cui non ero ancora entrata, in primis Bologna. Però l’anno dopo a Bologna fu nominato sovrintendente un vecchio amico: Gioacchino Lanza Tomasi. Così tornai a Modena e dissi ad Adua che Bologna rientrava, come altri teatri, nelle mie competenze. Fu gentile, capì. Più tardi mi propose una scrittura a Glyndebourne, dove, com’è noto, c’è la qualità ma pagano pochissimo. Declinai l’invito e la nostra collaborazione virtuale finì là, amichevolmente.

Gli agenti possono essere più o meno buoni. L’amico Roberto Frontali stimava moltissimo il suo, che non c’è più, e doveva avere buone ragioni. Ernesto Palacio, che è stato un ottimo tenore, oggi direttore artistico del R.O.F., ha “scoperto” e lanciato Juan Diego Flórez. Ma non posso dire che gli agenti siano tutti bravi. Io, agli inizi, ricevevo varie telefonate di agenti che mi proponevano Aida o Don Carlo, che non erano roba per me. Li ringraziavo e stop. La cosa, in genere, funziona così: io ti do la star del momento e tu mi prendi anche il tale e/o il talaltro. Ora, se questi hanno parti modeste, o sono bravi, un teatro può anche pagare questa piccola cambiale. Ma se la loro presenza fa scadere la qualità generale del cast dovrebbe rifiutare simili proposte (chiamiamole così). Alcuni agenti riescono a infilarsi nei teatri in maniera invasiva. Ma io non me la prenderei con loro. La responsabilità è di chi è al timone del teatro, che deve servirsi delle agenzie e non servirle.

Come ho fatto far carriera senza agente? Col passaparola di direttori artistici o sovrintendenti, di registi e direttori d’orchestra. Conservo una lettera, del tempo dei miei inizi, in cui Giorgio Vidusso, allora responsabile dell’orchestra RAI di Roma, scriveva a Italo Gomez perché mi lasciasse libera a Venezia, in quanto, diceva, “ero un vero contralto”. E poi, se ti affermi e sei conosciuta in un certo campo o in certi ruoli, un teatro – se è onesto - ti chiama. Così alla Scala sono stata per quasi vent’anni, il che ti fa di per sé pubblicità.

I teatri, in generale, dovrebbero avere più attenzione verso i giovani, i dirigenti andare ai concorsi ed a sentire opere in giro, e fare audizioni anche senza agenzie di mezzo.

Non si smette mai di imparare. Quanto è importante continuare a formarsi durante la propria carriera?

È un luogo comune, ma è vero: non si finisce d’imparare. La formazione, sempre se c’è il cervello, è permanente, o tale dev’essere. Le esperienze si accumulano e si scopre sempre qualcosa. Tant’è che la massima conoscenza e consapevolezza arriva di solito quando non c’è più la freschezza vocale e fisica della gioventù. Peccato! Sono ammirevoli i cantanti longevi che vanno avanti grazie al tesoro di queste esperienze.

E poi, prima di tutto, ci vuole sempre la salute e la forma fisica, si capisce.